domenica 7 novembre 2010

Biomeccanica della torsione abduttoria


La torsione abduttoria si presenta come un rapido sbandamento mediale del tallone durante o poco prima della fase di sollevamento del calcagno che precede la propulsione vera e propria del piede. Il risultato è un movimento in abduzione del piede nel momento pre-propulsivo, cioè una rapida rotazione esterna del piede e di tutto l’arto inferiore attorno alle teste metatarsali. Si tratta di una condizione spesso associata a una pronazione anomala in fase di midstance.

ROTAZIONI DELL’ARTO DURANTE LA MARCIA
Per poter compiere il programma locomotorio della marcia, le estremità inferiori devono ruotare in direzioni opposte sul piano sagittale; in altre parole quando la gamba sinistra si muove in avanti, quella destra è spostata indietro e viceversa. Questa contro-rotazione si sviluppa in maniera coordinata con un’altra rotazione, quella sul piano trasverso a livello della pelvi per permettere una lunghezza del passo maggiore e nel contempo per rendere la locomozione bipodalica più efficiente e armoniosa. Ne consegue che rotazioni orizzontali della tibia, del femore e della pelvi sono sincroniz-
zate durante il cammino. La pelvi raggiunge la massima
rotazione sul piano trasverso nei momenti di contatto dell’avampiede e di stacco delle dita. Mentre l’arto inferiore sinistro si muove anteriormente dallo stacco delle dita fino al primo contatto del tallone (fase di volo), l’emibacino sinistro si muove anteriormente rispetto a quello de-
stro. Allo stesso tempo l’arto destro si muove posteriormente dal contatto dell’avampiede allo stacco delle dita (fase di stance), causando una rotazione in senso opposto dell’emibacino destro rispetto al sinistro.
I movimenti dell’arto inferiore che avvengono sul piano sagittale causano quindi rotazioni cicliche che la pelvi sviluppa sul piano orizzontale in modo tale che durante la midstance l’anca adibita alla fase di volto si troverà in posizione anteriore rispetto all’anca adibita alla fase di stance.

EFFETTO DELLE FORZE DI REAZIONE SULLA ROTAZIONE PELVICA
E’ noto che durante la fase di stance il piede è tenuto saldo a terra dalle forze di frizione provenienti dal suolo. Quindi, a meno che il piede non scivoli sul suolo, esso non può ruotare attorno al piano trasverso insieme alla pelvi per seguire la spinta rotatoria da essa proveniente. Il piede e la gamba devo possedere un meccanismo che permetta al femore e alla tibia di ruotare esternamente assieme alla pelvi smorzando mano a mano in direzione prossimo-distale le componenti rotatorie che altrimenti causerebbero o la lesione delle articolazioni mantenute fisse dalla forza di reazione del suolo, o lo scivolamento del piede a terra.
Tale meccanismo è costituito dall’assestamento triplanare dell’articolazione sottoastragalica, che concede alla tibia di
muoversi liberamente: astragalo, tibia e asse della sottoastragalica ruotano tutti esternamente mediante compensati
dalla supinazione dell’ASA.

PATOMECCANICA DELLA PRONAZIONE ANOMALA DELL’ASA
La pronazione dell’ASA, quando avviene in maniera anormale durante la fase di midstance, causa l’intrarotazione di tibia e femore nel momento in cui essi dovrebbero trovarsi in extrarotazione. Ne consegue che queste due ossa lunghe si muovono in direzione opposta rispetto alla pelvi, a causa delle diverse rotazioni dei capi ossei o anche solo per una variazione di velocità fra rotazione della pelvi e quella delle articolazioni più distali. Come conseguenza, i tessuti molli di anca e ginocchio vengono stirati eccessivamente. Le forze frizionali tra piede e suolo tuttavia impediscono momentaneamente l’abduzione del piede spinto dall’avanzamento dell’emibacino. Quando la tibia si trova ad extrarotare più lentamente rispetto alla pelvi o addirittura in senso opposto, legamenti e altri tessuti molli di ginocchio e caviglia si stirano e accumulano energia potenziale elastica alla base della successiva torsione abduttoria, il momento cioè in cui l’energia potenziale rilascerà energia cinetica, e tendini e legamenti torneranno alla loro normale lunghezza.

PATOMECCANICA
Poco prima del distacco del tallone, ogni momento extrarotatorio sul femore e sulla tibia, causato dalla rotazione pelvica e accumulatosi durante la midstance, si risolve sprigionando una rapida extrarotazione del piede. Il rapido scivolamento mediale del tallone che compone questa extrarotazione podalica è appunto dovuto al rilascio repentino di questa energia potenziale accumulata durante la tensione elastica dei tessuti molli, con il risultato finale di una torsione abduttoria.
Fintato che il piede è tenuto saldo al suolo, quindi, le forze extratorsionali non sono in grado di sovrastare la frizione del suolo e non sviluppano una torsione abduttoria. Quando però durante il sollevamento del tallone la superficie di appoggio diminuisce improvvisamente, l’energia cinetica si libera, i tessuti molli riacquisiscono la loro forma e lunghezza originari e il piede viene abdotto. Non solo la superficie di appoggio inferiore, ma anche variabili come tipo di terreno (ghiaccio, alcuni parquet e linoleum) o tipo di suola (fondo cuoio o para) sono in grado di ridurre la frizione tra il suolo e la scarpa e aumentare quindi il twist in abduzione.
Altri importanti fattori che influenzano la torsione abduttoria possono essere:

- Velocità e lunghezza del passo: aumentano la velocità e la quantità di rotazione orizzontale della pelvi e tendono quindi ad aumentare la torsione abduttoria.

- Angolo del piede durante la fase di contatto: un posizionamento in adduzione
(dovuto a metatarso varo o cammino intraruotato) durante la prima parte dell’appoggio podalico causano uno stiramento maggiore dei tessuti articolari, aumentando la tendenza alla torsione abduttoria.

- Pronazione ASA anomala: come già descritto, la pronazione durante la fase tardiva di midstance è una delle cause principali di torsione abduttoria. In questi pazienti è necessario ristabilire una corretta e più veloce supinazione dell’articolazione per prevenire la torsione abduttoria, la quale è un chiaro segno di stress dei tessuti articolari e deve essere quindi prevenuta.

Molto spesso la torsione abduttoria si associa ad hallux limitus funzionale, poiché entrambe le anomalie sono causate dalla pronazione anomala della sottoastragalica.

CONCLUSIONE
La torsione abduttoria o abductory twist è nel contempo segno e complicazione di un disadattamento rotazionale sul piano trasverso fra la velocità della pelvi e quella dell’arto inferiore durante la fase di appoggio intermedio. Per questo motivo può essere usato come indicatore di una meccanica anormale del passo che potrebbe essere difficile rilevare altrimenti con strumenti anche costosi. Qualunque siano le parole che verranno scelte per indicarla, ci auguriamo che venga presto adottata fra la terminologia clinica quotidiana, poiché si tratta di un segnale semplice ed estremamente utile da notare, che può e deve guidare lo specialista nella decisione della corretta terapia da intraprendere.

venerdì 3 settembre 2010

Linee guida sulla valutazione e il trattamento podologico delle eterometrie

Cominciamo con una precisazione: la dismetria è il disturbo neurologico caratterizzato dalla difficoltà di calcolare le distanze nel raggiungimento di un oggetto. Quando trattiamo di differenze nella lunghezza di due arti inferiori è invece appropriato parlare di eterometria. Oltre a questo, una corretta terminologia è fondamentale soprattutto per distinguere una eterometria anatomica vera degli arti inferiori (detta strutturale e definita LLD – Leg Lenght Discrepancy), da una meno rara eterometria funzionale (detta apparente e definita LLI – Leg lenght inequality).
Il podologo dovrebbe essere preparato per valutare l’intera immagine clinica di tutto il corpo alla base di una LLI. Dovremmo essere molto consapevoli di come causa congenita, idiopatica e traumatica influenzino una eterometria solo apparente. Gli esempi sono molti: scoliosi, blocchi intervertebrali, sacralizzazione della colonna lombare (quando la 5a vertebra lombare si trasforma e si fonde con l'osso sacro), ecc.
Ciascuno di questi risultati influenza l'atteggiamento della colonna lombare, del bacino e, a cascata, della lunghezza della gamba. Una volta che questi fattori vengono esclusi, possiamo cominciare a cercare la causa della apparente LLI a valle della catena muscolare e postulare il trattamento corretto. Anche se mossi dalle migliori intenzioni, trattare le eterometrie con rialzi del tallone senza tenere conto di tutti questi fattori induce troppo spesso al fallimento delle terapie ortesiche.
Non tutti i casi di eterometria apparente infatti sono dovuti alla rotazione lombare e pelvica (detta assiale) e lo stesso vale per l'estremità inferiore (detta appendicolare): anomalie del piede e della caviglia contribuiscono alla LLI, ma non così frequentemente come le cause assiali e congenite. In genere quindi è meglio non utilizzare rialzi in eterometrie apparenti, salvo casi di scoliosi idiopatica in cui ci sia eterometria acquisita e dove l’arto inferiore più corto è dal lato della convessità della curvatura lombare.
La quantità di differenza in lunghezza che si nota durante l’esame di un paziente non dovrebbe necessariamente corrispondere alla quantità di altezza compensatoria inserita nella calzatura di un paziente con eterometria. Questo per una serie di ragioni. Prima di tutto, la misurazione clinica della differenza di lunghezza è notoriamente inaccurata, a meno che non venga effettuata una radiografia. Ad ogni modo può essere utile, prima di applicare un rialzo permanente, fornire al paziente un rialzo di prova da inserire nelle scarpe per verificare sollievo dei sintomi, miglioramento dei pattern deambulatori e assenza di sintomatologie o patologie collaterali.
In secondo luogo, aggiungere un tacco a una scarpa sola modifica radicalmente la dinamica del passo dell’arto rialzato, per cui è generalmente la scelta migliore applicare un rialzo a lunghezza totale soprattutto se superiore ai 6 mm. In altre parole, determinando discrepanze maggiori di 6 mm, potrebbe essere utile applicare parte del rialzo totale sulla suola e il resto solo al tallone, all’interno della scarpa.
Terzo, se il paziente utilizza già delle ortesi plantari, applicare un rialzo addizionale alla suola o al di sotto del plantare mina la funzione dell’ortesi sul piede. Questo perché, quando si indossa un’ortesi con un rialzo addizionale per il tallone, il paziente non si accorge dell’aumentata pressione a livello dell’arcata mediale e il piede corre il rischio di incrementare la forza supinatoria. Ciò avviene perché in un piede, quando aumentano la plantarflessione del primo raggio e il conseguente irrigidimento dell’arco mediale, conseguono dorsiflessione dell’alluce e detensione del tendine d’Achille. Tutti questi fattori tendono ad aumentare il momento supinatorio dell’articolazione sottoastragalica, che si verifica nel momento in cui al plantare si aggiunge un anormale rialzo per il tallone.
Infine, gli unici casi utili all’indicazione di un rialzo della stessa altezza dell’eterometria riscontrata sono su pazienti di età inferiore ai 20 anni o su adulti che hanno recentemente subito traumi o accorciamenti degli arti iatrogeni (dovuti cioè a complicanze chirurgiche). Altrimenti è buona regola utilizzare rialzi non superiori al 50-75% della differenza dell’arto riscontrata, a seconda del tipo di deambulazione del paziente e della sintomatologia riscontrata. La teoria alla base di questa conclusione è che, dopo anni di deambulazione con eterometria degli arti, il paziente abbia sviluppato nel tempo adattamenti del sistema muscolo scheletrico, che sarebbe deleterio correggere all’improvviso in maniera completa. Per esempio: in un paziente di 45 anni con diagnosi di eterometria di 1 cm sarà opportuno partire con un rialzo di 0,5 cm (sulla suola o internamente alla calzatura a livello del tallone). Dopo 6 mesi o più, possono essere aggiunti ulteriori 2 mm, nel caso che il paziente sia interessato a un’ulteriore correzione e non abbia problemi risultanti dal rialzo addizionale.
Ad ogni modo, rialzi esterni alla suola sono accompagnati da una serie di problematiche: possibile instabilità del passo, peso addizionale della calzatura, aumentata rigidità della suola e non ultimo il motivo estetico. Questi potenziali fattori negativi devono sempre essere tenuti in considerazione dal clinico.
La minima quantità di eterometria utile da compensare è legata alla capacità di misurazione clinica della stessa. L’errore medio di una misurazione obiettiva di un’eterometria, a patto che venga effettuata a regola d’arte, è di circa ± 3 mm. Sotto la soglia di tale errore è inutile agire, poiché probabilmente l’eterometria non ha conseguenze rilevanti per la deambulazione. C’è però un’eccezione, rappresentata dal paziente sportivo e in particolar modo dal runner, per il quale la forza di reazione del terreno aumenta del doppio se comparata a quella che si sviluppa durante la camminata.
Quattro tecniche di misurazione di eterometria consigliate:

1.paziente sdraiato supino, le estremità inferiori parallele al piano sagittale mediano, caviglie dorsiflesse a 90 gradi. Si misura la differenza fra l’aspetto del cuscinetto adiposo dei due talloni;
2.la stessa misurazione si pratica con il paziente seduto sul lettino con le natiche premute contro il muro, estremità inferiori parallele al piano sagittale mediano (quindi con le articolazioni dell’anca flesse a 90 gradi, ginocchia estese e caviglie dorsiflesse a 90 gradi);
3.paziente in bipedestazione rilassata (dopo un respiro profondo); si palpa a livello delle spine iliache antero-superiori. Può essere utile l’ausilio di una livella a bolla;
4.paziente in bipedestazione rilassata (dopo un respiro profondo); si palpa a livello delle spine iliache postero superiori. Può essere utile l’ausilio di una livella a bolla.

E’ sconsigliata la metodologia di misurazione con metro a livello delle sporgenze dei malleoli mediali perché non tiene conto di eventuali differenze di lunghezze dal malleolo alla pianta del piede.
L’indagine radiografica è utile quando vi sia un contributo all’eterometria della schiena (scoliosi) o dei fianchi (rotazioni sul piano trasversale). Si possono usare i raggi X per rilevare inclinazioni del bacino e dare prova che un lato è più alto dell'altro. La lastra della colonna e del bacino, che dovrà essere eseguita sotto carico su pellicola con reticolo, in posizione ortostatica in proiezione a.p., è utile anche quando ci sono squilibri biomeccanici a seguito di protesizzazione d’anca o del ginocchio, per misurare effettivamente la differenza con l’arto sano. E ancora, è utile nei casi in cui l'impianto non si adatta perfettamente o siano state innestate protesi troppo lunghe o troppo corte. In ogni caso la radiografia va sempre comparata con il risultato ottenuto dall’indagine clinica.
Un altro metodo per rilevare una discrepanza fra la lunghezza degli arti è osservare il movimento delle braccia del paziente durante la marcia. Il braccio opposto all’arto più corto compie oscillazioni più ampie rispetto a quello controlaterale. Un paziente con arto sinistro più corto di 1 cm può generare oscillazioni del braccio sinistro fino al 50% più ampie del normale. Ciò è verosimilmente dovuto all’aumento di massa e al momento di inerzia dell’arto inferiore destro, più lungo, che richiede un aumento dell’accelerazione angolare dell’arto sinistro per impedire alla testa di rotare sul piano traverso durante la deambulazione.
A seguito di tutte queste indicazioni, il podologo può essere disorientato riguardo alla quantità di correzione da utilizzare in caso di eterometrie. Quando lavoriamo sulla costruzione dei plantari siamo infatti abituati a trattare patologie come la pronazione anomala della sottoastragalica, il valgismo di calcagno ecc., utilizzando elementi sostanzialmente ipercorrettivi. Questo perché a fronte di una correzione di 30 gradi, riusciamo a ottenere deviazioni della pronazione solo di un paio, forse di 3 gradi. È il caso delle calzature antipronatorie e delle ortesi plantari con cunei retropodalici con gradi di inclinazione che non necessariamente si traducono nella stessa quantità di supinazione della sottoastragalica per il piede del paziente.
In altre parole, il controllo del piede sul piano frontale a mezzo di ortesi plantare è suscettibile di un certo “gioco” che è invece assente nel controllo sagittale del piede e dell’estremità inferiore, realizzabile mediante un rialzo verticale, per il quale la proporzione fra elemento correttivo e correzione ottenuta è praticamente 1:1. È questo un altro motivo per cui i clinici più esperti sono riluttanti a trattare LLD con correzioni totali già alla prima visita nel caso di pazienti adulti. Essi preferiscono piuttosto utilizzare un correttivo parziale nella calzatura e con il tempo aumentarne lo spessore.

giovedì 2 settembre 2010

Roma Foot 2010

Apparso su: A piede libero anno 2010 n.2 Visualizza l'intera rivista in .pdf
 
Quando si attende alacremente un convegno da quasi un anno è inevitabile sviluppare una certa aspettativa. Le premesse del Roma foot 2010, il convegno internazionale tenutosi a maggio all'auditorium Seraphicum di Roma, erano all’altezza del partecipante più esigente: la presenza di figure autorevoli della facoltà di podologia della Sapienza, un palinsesto espositivo ampio e variegato, un'organizzazione attenta ai minimi particolari e un guest speaker del calibro di Kevin Kirby.
Il tema era lo sviluppo e lo studio delle nuove tecniche di chirurgia ibrida del piede, argomento trattato per intero durante la prima giornata, fra appunti di nuove tecniche e video di live surgery. Una giornata quindi di stretta competenza ortopedica, ma podologi, fisioterapisti e tecnici ortopedici hanno avuto anch'essi pane per i loro denti a partire dalla seconda giornata, dove le figure degli sportivi e in particolare dei runner sono state obiettivo di svisceramento da parte dei relatori.
Uno dei primi interventi di Kirby ha riguardato la terminologia in ambito podologico; una questione scottante viste le numerose contrapposizioni esistenti fra le diverse scuole internazionali e addirittura fra nord, centro e sud Italia. Lodevole quindi l'iniziativa del dottore di Sacramento, nel disperato tentativo di uniformare le basi su cui poggia la scienza podologica, affermando la validità della ragione e della logica.
Di tutt'altra idea il dr. Luigi Avagnina che, mosso dalla sua tipica eccentricità, è intervenuto parlando di plantare sportivo con una terminologia tutta personale e originale. Egli sostituisce ad esempio la parola stabilizzare, un po’ troppo vetusta e limitativa, con il termine forse più professionale di modulare.
Durante la presentazione dell’Ava concept, ovvero il metodo di fare podologia secondo Avagnina, abbiamo accolto con un po’ di perplessità le figure delle podoline, ovvero le studentesse che si sono laureate al master sul piede sportivo indetto da Avagnina, che le chiama a quel modo. Ovviamente una termine scherzoso, ma ci teniamo a promuovere il lato nobile e scientifico della disciplina podologica, a scanso di confusioni con il mondo delle soubrette!
Le ultime due giornate hanno avuto come tema centrale la biomeccanica. I concetti espressi sono stati molti: il dr Kirby ha sottolineato più volte la teoria rotazionale dell'asse Asa e quello di modello di stress dei tessuti, ha mostrato, secondo la sua scuola di pensiero, il plantare ideale per diverse patologie. Una relazione scrupolosa e completa.
Se possiamo formulare una conclusione critica è che, purtroppo, ancora oggi teorie biomeccaniche avanzate continuano a portare alle medesime conclusioni, ovvero alla necessità di un plantare con scarichi mirati e barre di sostegno metatarsali, con cunei prono-supinatori. Si tratta di design ormai collaudatissimi, e tutti noi speriamo che nel prossimo futuro si possa evolvere dalle vecchie teorie del Valenti (ancora per molti versi valide) e del Root. Sia ben chiaro, la scienza non può e non deve per sua stessa definizione dimenticare il passato e anzi, rimanendo in tema, sarebbe meglio che i relatori inserissero la bibliografia a valle delle loro relazioni, pratica ancora poco adottata qui in Italia.
Al convegno, alcuni strenui sostenitori delle teorie del Papparella Treccia hanno provocato Kirby sulla vera posizione dell'asse della sottoastragalica. Si tratta di provocazioni per molti versi fondate, cui purtroppo però non viene data risposta, rimandando tutta la questione a una non ben definita tavola rotonda per i soli relatori. Attendiamo con ansia che si trovi un punto di coesione fra i due modelli articolari presentati.
L’importante incontro organizzato dal dr. Albo procede all’insegna di una grande organizzazione, un successo dimostrato dall’ampia presenza degli espositori al piano inferiore la sala congressi. In seguito a workshop ed esempi di deambulazione di alcuni volontari, filmati e proiettati al grande schermo, il dr. Kirby e gli altri relatori si sono resi disponibili per una sessione di risposte alle domande della platea.
Terminato il convegno, è rimasto lo spazio per alcune considerazioni. Prima fra tutte la necessità di altri convegni improntati all’approccio scientifico, che privilegino i numeri alle belle espressioni d'impatto: una frase come "la verità del moto specifico dell'uomo è nascosta fra le spire di un'elica" sarà pure d'effetto, ma a parte l'essere ormai logora e abusata è scientificamente irrilevante, e di questo bisogna prendere atto per le prossime esposizioni.
A meno di una settimana dalla conclusione del Roma Foot 2010, presso gli indirizzi e-mail della redazione e di tutti i partecipanti alle tre giornate romane sono giunti i link per scaricare la raccolta di articoli e saggi messa a disposizione dal dr. Kirby.
Come è risaputo la maggior parte di questo tipo di raccolte necessita solitamente di essere acquistata presso le grandi banche dati scientifiche online. Le centinaia di pagine scaricabili presso la biblioteca virtuale del dr. Kirby ci sono invece state fornite gratuitamente, e spaziano dagli argomenti trattari durante il convegno fino alle questioni più disparate di ambito podologico e biomeccanico. Un servizio che da solo valeva il prezzo del biglietto al convegno, un grande impegno di un autore internazionale da prendere come esempio da parte degli studiosi nostrani.

lunedì 30 agosto 2010

Il muscolo tibiale posteriore - Parte 2: Disfunzione tendinea

Apparso su: A piede libero anno 2010 n.1 Visualizza l'intera rivista in .pdf

Un soggetto che soffre di disfunzione del tendine del tibiale posteriore corre il rischio in futuro di presentarsi presso un ambulatorio podologico per aver acquisito un piede piatto. Con la stessa probabilità però, una sindrome pronatoria è in grado di causare uno stress del tibiale posteriore che degenererà col tempo in una disfunzione vera del tendine. Questo circolo vizioso rende difficile da parte dello specialista riconoscere la causa primaria del malessere del paziente. E’ stata la disfunzione del tendine a causare il piattismo del piede o viceversa? Con quest’ultima parte di trattazione del muscolo non si darà certo una risposta a uno dei dilemmi che ancora divide la comunità scientifica, ma aiuteremo a fare chiarezza sulla patologia del tibiale posteriore, in modo tale da poter ricondurre a ogni caso clinico l’eziologia più probabile.
La disfunzione del muscolo tibiale posteriore (PTTD) è ritenuta la principale causa nello sviluppo della deformità in piattismo del piede nell'adulto. Le persone più colpite da PTTD sono femmine bianche dai 45 ai 65 anni di età, con sovrappeso e ipertensione. Il grado di compromissione funzionale e il disagio del piede variano secondo la gravità dello stress del muscolo, stimata in quattro stadi secondo gli studi approfonditi svolti da poco prima degli anni ’90 e che vedono tuttora rimaneggiare la graduatoria con frequenza. In termini generici possiamo affermare che il primo stadio è caratterizzato dal dolore e gonfiore dell’aspetto mediale della caviglia, senza alterazioni posturali associate.
Il secondo stadio è caratterizzato da debolezza del tendine e difficoltà a completare la fase di stacco del tallone, in associazione a retropiede valgo e deformità in abduzione dell’avampiede. A questo stadio tuttavia il piede è ancora flessibile e correggibile dall’operatore.
Nel terzo stadio il piede piatto presenta una deformità sempre più irreversibile perché rigida. Nel quarto grado, infine, la deformità in valgismo è a carico anche della caviglia, la rigidità articolare è massima, in associazione con una forte degenerazione delle articolazioni periastragaliche e dei legamenti.
Per una trattazione più approfondita dei gradi di PTTD - impossibile in questa sede se non sacrificando tutto lo spazio offerto dalla rivista! - rimandiamo alla classificazione di Bluman et al., ad oggi la più descrittiva e comprensiva in merito.
Ma qual è l’origine della disfunzione del tibiale posteriore? Sebbene sia universalmente ascritta fra le sindromi da stress, la PTTD presenta un’eziologia tutt’oggi sconosciuta. Possiamo però fare una distinzione fra due principali cause, meglio identificabili come condizioni predisponenti la patologia.
La prima è quella anatomica: si è fatto riferimento nello scorso numero alla totale avascolarizzazione tendinea nella zona in cui le fibre del tibiale posteriore scorrono nella puleggia ossea del malleolo tibiale. Questa delicata condizione anatomica potrebbe concorrere nella degenerazione tendinea, soprattutto a seguito di un trauma diretto o di un affaticamento tendineo da errato gesto sportivo (corsa in salita senza preparazione, scatti improvvisi soprattutto nel tennis).
L’altra causa identificabile è quella meccanica: una sindrome da eccesso pronatorio o un’instabilità del piede nel momento filogravitario della deambulazione producono, a seguito delle aumentate forze di reazione del suolo sul margine laterale del piede, un’aumentata spinta in eversione. L’astragalo plantarflette e adduce attorno all’asse della sottoastragalica che si è anormalmente medializzato, il metatarso si slega dal retropiede, il primo raggio non può essere stabilizzato al suolo per la funzione portante del passo. Nel caso di una spinta pronatoria non eccessiva, il tibiale posteriore viene sovraccaricato per riportare il retropiede in inversione, tanto che la ripetizione di questa contrazione può causare uno stress all’origine della PTTD. O ancora, la deviazione in pronazione può non essere recuperabile dal muscolo tibiale posteriore, il quale subisce uno stiramento continuo e una lacerazione delle sue fibre tendinee.
L’insufficienza del tibiale posteriore non è una patologia che riguarda solo il suo tendine. La progressione dal primo stadio ai gradi più evoluti di PTTD è associata dall'anormale postura del piede, indicando una diminuita funzione del tibiale posteriore e un cedimento del supporto offerto dai legamenti del comparto periastragalico mediale del piede. Siccome i muscoli sinergici come il flessore lungo delle dita sono incapaci di compensare adeguatamente il diminuito contributo del tibiale posteriore, la persistenza della posizione anormale contribuisce al cedimento dei legamenti, aumentando col tempo la deformità in piattismo.
Nello specifico, i legamenti compromessi sono:
* tratti superomediale, inferomediale calcaneo-scafoideo e astragalo-calcaneare, tutti componenti del legamento deltoideo, con alti livelli di degenerazione in più del 70% dei soggetti affetti da PTTD;
* complesso della fascia plantare, che mostra tenui segnali di alterazione in circa il 40% dei pazienti e alterazioni più gravi nel 10% dei casi;
* legamento deltoideo antero-superficiale, con gradi di degenerazione nel 30% dei soggetti con PTTD;
* legamento plantare metatarso-cuneiforme, compromesso nel 20 % dei casi;
* legamento plantare scafo-cuneiforme, con piccoli segni di degenerazione con frequenza del 10 %.
Altri legamenti sofferenti possono essere i legamenti plantari lunghi e brevi, il legamento deltoideo profondo e il legamento deltoideo postero-superficiale.

Se gli stadi più evoluti della patologia da stress del tibiale posteriore richiedono l’approccio chirurgico per recuperare un appoggio plantigrado del piede tramite artrodesi, osteotomie del primo cuneiforme, fusione del primo raggio, allungamento dei muscoli peronei e tibiale anteriore, riallineamento del calcagno e perfino protesi di caviglia, è anche vero che soggetti con stadio I e II di PTTD senza una completa rottura del tendine ottengono buoni risultati con un programma riabilitativo associato all’uso di supporti ortesici plantari. La riabilitazione include specifici programmi rivolti al tibiale posteriore, peronei, tibiale anteriore e gastrocnemio mediante esercizi isocinetici, benda elastica, alzate in punta di piedi e camminata sul talloni. Inoltre, come risultato degli avanzamenti nella comprensione della patomeccanica della deformità in piattismo lasso del piede e grazie al miglioramento della qualità delle ortesi, il trattamento podologico assume un ruolo sempre più valido. Lo scopo biomeccanico è ristabilire la corretta deviazione degli assi attorno ai quali avviene la prono-supinazione delle articolazioni podaliche, prima fra tutte la sottoastragalica. Ristabilendo una lateralità dell’asse, infatti, è possibile aumentare il braccio di leva lungo il quale si esprimono le forze di reazione del suolo in favore di una spinta supinatoria. All’atto pratico è utile un plantare avvolgente per il calcagno, che stabilizzi l’arco plantare mediante il contatto solidale della volta al plantare elastico. La stabilizzazione può essere ricercata mediante un riempimento della volta fino a poco prima della testa del primo metatarsale, per continuare il controllo anche durante la fase propulsiva. La calzatura dovrà possedere un tacco di 2-3 centimetri veri in modo tale da compensare una brevità della muscolatura surale che spesso è alla base di una sindrome pronatoria. Per i casi di PTTD più avanzata ma ancora correggibili, possiamo pensare di utilizzare un plantare con un profilo più alto, magari un guscio elastico o semirigido, in modo tale da poter stabilizzare maggiormente il calcagno, controllare la volta mediante rinforzi e stabilizzazioni del margine mediale dell’ortesi. Non è escluso poi l’utilizzo del calco gessato per i casi più evidenti di disfunzione o rottura tibiale, per i quali confezioniamo un dispositivo rivestito di materiale ammortizzante, con lo scopo principale di accomodare la deformità piuttosto che correggerla; secondo quest’ottica potremmo fornire il plantare di un leggero elemento di sostegno per la volta mediale.
Siamo giunti al termine del nostro viaggio nell’approfondimento del tibiale posteriore, un tema che riserva ancora molto spazio allo studio e all’approfondimento nonostante la ristrettezza dell’argomento (un muscolo solo a fronte di altri 656 che compongono l’apparato locomotore umano). Un muscolo importante per la stabilità della volta plantare il cui deficit, che sia causato da una sua disfunzione primaria piuttosto che da un disturbo patomeccanico preesistente, non può mai essere completamente compensato dalla muscolatura sinergica o dal supporto legamentoso. E’ indispensabile quindi che lo specialista sappia gestire tale disfunzione in modo che si eviti il sovraccarico funzionale e che, nelle forme di deformità più avanzate, rivesta un ruolo informativo per il paziente nei riguardi dell’approccio chirurgico necessario.

un paziente di 73 anni con insufficienza del tibiale posteriore, il tratto superomediale calcaneo scafoideo mostra una severa degenerazione

giovedì 26 agosto 2010

Il muscolo tibiale posteriore - Parte 1: Biomeccanica

Apparso su: A piede Libero, anno 2009 n. 4 - visualizza l'intera rivista in .pdf

Quando parliamo di muscolatura cavizzante facciamo riferimento a quei tendini intrinseci ed estrinseci del piede che sono capaci, in fase di contrazione del ventre cui sono collegati e con l’arto in carico, di aumentare l’altezza della volta plantare mediale. Fra questi muscoli annoveriamo l’abduttore dell’alluce e il tibiale anteriore, tessuti sui quali il podologo è abituato ad agire per via propriocettiva quando progetta plantari provvisti di ¼ di sfera per stimolare lo sviluppo della volta in bambini e ragazzi con piedi piatti. In condizioni fisiologiche anche il peroneo lungo è un muscolo cavizzante, perché è in grado di plantarflettere contro il suolo il primo metatarsale e di supinare l’articolazione sottoastragalica, con il risultato di un innalzamento della volta. Un altro muscolo importante nel sostegno  della volta mediale è senza dubbio il tibiale posteriore, che è inoltre in grado di plantarflettere l’articolazione tibio- tarsica e di compiere un’adduzione del piede. In sede di esame clinico il suo tendine può essere palpato agevolmente nel punto in cui passa immediatamente dietro e inferiormente al malleolo mediale, zona in cui viene messo in evidenza con la flessione plantare associata alla supinazione.

ANATOMIA E FISIOLOGIA

Il muscolo tibiale posteriore origina dal labbro inferiore, dalla linea obliqua e dalla faccia posteriore della tibia, dalla parte posteriore della membrana interossea, dalla faccia mediale della fibula e dai setti intermuscolari circostanti. Decorre in direzione distale e in profondità a ridosso della membrana interossea. Il suo tendine corre al di sotto del malleolo tibiale nel solco retro malleolare, e si porta al di sopra del substentaculum tali. Giunto in corrispondenza del tubercolo dello scafoide, il tendine dà tre espansioni: la più robusta e che continua la direzione del tendine si inserisce a livello del tubercolo mediale dello scafoide e sul 1° cuneiforme; quella laterale si dirige sul 2°, 3° cuneiforme e al cuboide; infine il fascio di fibre posteriore si porta verso il substentaculum tali. L’innervazione del muscolo è data dal nervo tibiale, mentre l’attributo di sangue è garantito in maggior parte dall'arteria tibiale posteriore e in minor misura dall’arteria peronea. Gran parte del tendine è ricoperto da un foglietto peritendineo che riduce l’attrito, nel quale i vasi formano una struttura simile a una ragnatela. Dal peritendine essi penetrano nel tessuto del tendine vero e proprio e si anastomizzano con una rete di arteriole non omogenea. Nella regione in cui il tendine passa attorno al malleolo mediale questa rete intratendinea, inizialmente orientata longitudinalmente, si interrompe e il tibiale posteriore risulta essere avascolare nella zona in cui scorre attorno alla puleggia ossea della doccia malleolare (figura sovrastante). Questa piccola precisazione sull’irrorazione del tibiale posteriore ci servirà in seguito, quando descriveremo la patologia di questo muscolo. Grazie alla posizione dei sui capi inserzionali, quando si contrae il tibiale posteriore è capace di avvicinare lo scafoide al substentaculum tali: questa compressione agisce sulla testa dell’astragalo, accomodata fra queste due componenti ossee, la quale è costretta a risalire al di sopra del suo acetabolo, con il risultato di una supinazione di tutta l’articolazione sottoastragalica. Per questo motivo il tibiale posteriore è un muscolo fondamentale nella costituzione della leva rigida podalica che permette il trasferimento di carico durante la deambulazione.

FUNZIONALITÀ DEL MUSCOLO NELLA DEAMBULAZIONE

I modelli di attività fasica dei muscoli suggeriscono che il tibiale posteriore comincia a contrarsi durante il periodo di contatto col suolo subito dopo l’appoggio dell’avampiede a terra, frenando l’eversione del calcagno e ammortizzando lo shock. Ma questo muscolo comincia già ad agire ben prima, cioè non appena il tallone tocca a terra e rotola in plantarflessione verso il suolo, spinto dalle forze di reazione di quest’ultimo. Infatti in qualità di muscolo di origine biossea (tibiale e fibulare) concorre al serraggio della pinza malleolare nella quale si incastra l’astragalo, che viene mano a mano frenato rallentando così tutto l’avampiede, che non sbatte a terra. Tutto ciò avviene in assenza di una vera e propria attività fasica rilevabile nel muscolo tramite elettromiografia, bensì grazie a una sua contrazione eccentrica, ovvero la forza resistiva all’allungamento propria di tutte le fibre muscolari e dei tessuti tendinei. Infatti la contrazione eccentrica di qualsiasi muscolo del corpo è dal 150 al 600% più efficiente di una contrazione concentrica: in sostanza un muscolo è molto più forte nel resistere all’allungamento piuttosto che ad accorciarsi. Se prendiamo in considerazione la struttura pennata e poi semipennata del tibiale posteriore e il suo lungo tendine, deduciamo una grande efficienza di questo muscolo nell’esprimere una forza eccentrica. All’aumentare del carico sull’arto in appoggio, la gamba continua a intraruotare, con il risultato di una pronazione dell’articolazione sottoastragalica. Il tibiale posteriore è il primo dei muscoli della loggia posteriore della gamba ad agire per frenare e poi bloccare questa pronazione fino al contatto col terreno dell’avampiede: il retropiede viene spinto in inversione e il metatarso in eversione, in preparazione della fase portante. Ma prima che questa si compia è necessario stabilizzare la gamba sul piede in carico, la quale procede in avanti per l’accelerazione del tronco. Durante tale periodo il tibiale posteriore assume un altro importante ruolo in qualità di muscolo plantarflessore, che è quello di evitare la caduta in avanti della gamba. Il tibiale posteriore, con assistenza del soleo prima, del flessore lungo delle dita e dell’alluce poi, frena l’avanzare della tibia sul piede. Una volta che la pronazione ASA è stata frenata, l’azione del tibiale posteriore continua per tutto l’appoggio intermedio, permettendo di supinare l’ASA e di extrarotare la gamba. Questa azione viene svolta in concomitanza con il muscolo soleo e il flessore lungo delle dita. Supinazione ed extrarotazione continuano per tutta la durata d’appoggio. Alla fine dell’appoggio intermedio, il tibiale posteriore compie una contrazione sinergica col peroneo lungo in modo tale da comprimere il primo raggio sulla mediotarsica e la mediotarsica sul tarso, costituendo la leva rigida antigravitaria. Infine durante la propulsione il tibiale posteriore agisce nella flessione plantare della tibiotarsica. Nel prossimo numero tratteremo della disfunzione del tibiale posteriore, una delle principali cause di deformità in piattismo del piede nell’adulto, nonché del ruolo del podologo nella cura e nella prevenzione della patologia di questo importante muscolo del piede.